La Pasqua è ormai vicina, mancano due domeniche, e la liturgia ci prepara attraverso la resurrezione di Lazzaro al mistero della resurrezione di Cristo.
Lazzaro, un suo amico intimo, si ammala e le sue sorelle, Marta e Maria, mandano a chiamare Gesù perché sanno che Lui può fare qualcosa per il loro fratello gravemente malato.
Gesù a chi lo informa della situazione dà una risposta che sorprende: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”, quindi non significherà vittoria della morte su di lui, ma costituisce l’occasione affinché si manifesti il peso che Dio ha nella storia e il Figlio venga glorificato. È così che il cristiano deve porsi davanti al dramma della sofferenza e della morte. Non da sconfitto o da perdente, ma da vittorioso perché nell’esperienza della morte del nostro corpo noi sperimentiamo la gloria di Dio che con la resurrezione di Cristo fa risorgere noi.
Gesù resta ancora due giorni al di là del Giordano, solo il terzo giorno (allusione alla sua resurrezione) annuncia la sua volontà di recarsi in Giudea. “Lazzaro, il nostro amico,” – continua Gesù – “si è addormentato; ma io vado a svegliarlo”. Di fronte all’ennesimo fraintendimento dei discepoli (“pensarono che parlasse del riposo del sonno”), Gesù dichiara apertamente: “Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!”. Gesù stesso ci suggerisce come dobbiamo interpretare la nostra morte, non la fine di tutto o il cadere nell’abisso del vuoto, ma addormentarsi per risvegliarci a vita nuova. Lui solo ha il potere di chiamare alla vita perché come si definisce: “Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”. Non dimentichiamo mai che la nostra vita è un dono che abbiamo ricevuto e la morte non è l’ultima parola della nostra esistenza. Credere in Cristo significa proprio sapere che grazie a Lui la nostra vita si apre all’eternità.
Don Mario Camera